In esilio
11 février 2022

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FANELLI Cristiana
Journées d'études

In esilio

Cristiana Fanelli

«È forse nell’arte, Nora carissima,
che io e te troveremo un sollievo
per il nostro amore»
 J. Joyce, Lettere, 31 agosto del 1909[1]

Lungo le rotte di un esilio che durava da anni e ormai in procinto di lasciare Trieste per Zurigo, tra il 1914 e il 1915 James Joyce compose la pièce teatrale Esuli (pubblicato poi nel 1918). Al centro del dramma vi sono l’esilio e il problema della fedeltà coniugale, temi ispirati a vicende personali di cui lo scrittore ha lasciato traccia nelle sue lettere[2]. Molti di questi frammenti epistolari tornano sparsi nelle sue opere – a dimostrazione del potente intreccio tra vita e letteratura che in Joyce non risponde ad esigenze estetizzanti, bensì al tentativo di sostenere, attraverso l’arte, un’esistenza cedevole in molti punti. Queste lettere, scritte nel corso di tutta la sua vita, compongono un carteggio imponente ed hanno come destinatari il fratello Stanislaus, intellettuali che hanno fatto la storia della cultura e molte donne tra cui Nora, Lucia e la protettrice di sempre: Miss Weaver, colei che avrebbe finanziato la pubblicazione delle sue opere, accudito Lucia malata e inviato a Nora il denaro necessario per la sepoltura di Joyce. Il proprio della scrittura epistolare è anche quello di far decantare la storia individuale nella grande Storia, lasciandone traccia indelebile.

Antefatti.
Le coordinate di una crisi
«Da dove viene il fuoco?
Il fuoco è il reale.
Il reale dà fuoco a tutto.
Ma è un fuoco freddo».
Jacques Lacan Il sinthomo

1904-1909: tra questi estremi temporali si dispiega la doppia vicenda dell’esilio e della crisi coniugale raccontata in Esuli.

Il 1904 è un anno memorabile nella vita di Joyce, quello in cui prende slancio in modo deciso la sua vocazione di scrittore. Il 7 gennaio Joyce scrive un articolo, Un ritratto dell’artista che, pur respinto dalla rivista Dana, è il nucleo di Stephen Eroe, il romanzo autobiografico cui lavorerà per anni sino a divenire Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane (1916). Allo stesso tempo scrive le poesie che confluiranno poi in Musica da camera (1907) e soprattutto comincia a comporre bozzetti ispirati alla vita dublinese che, di lì a qualche anno, daranno vita a Gente di Dublino (pubblicato nel 1914, dopo essere stato rifiutato ben diciotto volte da quindici diverse case editrici). Sullo sfondo di queste scritture, ci sono le celebri epifanie[3] composte tra il 1900 e il 1904, specie nei mesi del soggiorno parigino, e anticipate da alcuni componimenti in prosa (Silhouettes) e in poesia (Moods) scritti durante gli anni degli studi universitari, oggi scomparsi ma i cui titoli svelano corrispondenze sia con le epifanie sia con i racconti Gente di Dublino.

Il secondo evento cruciale dell’anno è l’incontro con Nora, allora cameriera del Finn’s Hotel, in cui Joyce s’imbatte casualmente per strada il 10 giungo. Appena sei giorni dopo si danno il loro primo appuntamento – sembra sia per questo motivo che Joyce ambienterà l’Ulisse il 16 giugno, sancendo ancora una volta l’intreccio tra arte e vita. Il fidanzamento dura qualche mese ed è accompagnato dalla scrittura di lettere («È grazie ad esse – scrive a Nora il 16 settembre 1904 – che ci siamo ritrovati più vicini») e dallo scambio di guanti attraverso cui Joyce aggirava il distacco delle notti:

«Spero che metterai a letto la mia lettera per bene. Il tuo guanto mi è stato accanto tutta la notte – sbottonato – ma a parte questo si è comportato molto bene – come Nora. Ti prego però di abbandonare quella corazza perché non mi piace abbracciare una cassetta per le lettere» (12 luglio 1904). Poi: «Spero che la mia lettera dorma bene ogni sera. Il guanto si comporta molto bene – ancora» (21 luglio 1904).

Notiamo la relazione tra la lettera, il corpo di Nora e il guanto di pelle. Non ci stupirà allora che nel fatidico 1909, nei giorni della crisi, Joyce abbia donato a Nora proprio dei guanti:

«Ti ho mandato i più bei guanti di pelle dello Ship: sono foderati con la stessa pelle, semplicemente rovesciata, e dovrebbero essere caldi come certe zone del tuo corpo, Butterfly» (1 novembre 1909).

Joyce fa sua la fantasia di una donna che calzi a pennello, che faccia da guaina. Tratto valorizzato da Lacan secondo cui Nora calzava a Joyce come un guanto rivoltato:

«C’è una cosa a cui si pensa, sì, ma si pensa raramente, perché non rientra nelle nostre abitudini, ed è di vestire la mano destra con il guanto che andrebbe sulla sinistra, rivoltandolo […] Il guanto rivoltato è Nora. È il suo modo di considerare che lei gli calza come un guanto[4]».

Nora gli aderiva attorno, come una guaina, senza lasciare resti. Ogni elemento di alterità femminile disperso. Con un gioco di parole degno di Joyce, Lacan osserva: «Non gli basta che lei gli calzi come un guanto, bisogna pure che lei lo serri come un guanto. Quanto a servire, lei non serve assolutamente a niente[5]» – lo serra, cioè lo annoda all’inconscio. Perciò, secondo Lacan, tra loro c’è rapporto sessuale[6].

Sin dall’inizio, i toni delle lettere che le indirizza sono segnate da un eros inquieto e pervasivo:

«Cara Nora. È appena suonata l’una. Sono rientrato alle undici e mezza. Da allora non ho fatto che starmene seduto su una poltroncina come un idiota. Senza poter fare niente. Non sento che la tua voce. Sto come un idiota sentendoti chiamare “Caro”. Ho offeso due persone oggi piantandole in asso. Volevo sentire la tua voce, non la loro» (15 agosto 1904).

Infine il 1904 è anche l’anno della fuga dall’Irlanda. Il primo esilio – tra il dicembre del 1902 e l’aprile del 1903 – aveva portato Joyce a Parigi alla ricerca di un ambiente meno chiuso e opprimente di quello irlandese. Ma le cattive condizioni di salute di sua madre lo avevano obbligato a rientrare. Invece l’8 ottobre del 1904, assieme a Nora, Joyce abbandona l’Irlanda per la seconda volta e in modo definitivo, allo scopo di affermare la propria identità di artista. Comincia qui l’esilio volontario da Dublino, «la città della paralisi e dell’apatia» a cui, perdendola, si legherà per sempre.

Joyce parlerà spesso dell’Irlanda come della sua “Isola” – non per nulla c’è un’assonanza tra isle (isola) e Exiles (titolo inglese della pièce teatrale). Nella filigrana della parola Exiles risplendono due sensi diversi: c’è un esilio legato alla terra d’origine e c’è un esilio di cui si fa esperienza nell’amore. L’epistolario, come anche la pièce teatrale Esuli, raccontano di questo doppio esilio.

Nelle lettere si deposita un discorso polemico, talvolta incendiario nei riguardi dell’Irlanda. Joyce scrive a Nora:

«Sono vissuto tanto all’estero e in tanti paesi che riconosco subito in qualsiasi cosa la voce straniera dell’Irlanda. Il disordine della tavola era irlandese, anche lo stupore sui volti, gli occhi curiosi della donna e della cameriera. È per me una terra straniera anche se ci sono nato e porto un suo vecchio nome» (19 novembre 1909).

D’altronde straniero è il significante attraverso cui Joyce si rappresenta in momenti cruciali: straniero per l’Irlanda, esule per ogni altro paese:

«Mi sento straniero nel mio stesso paese. Se mi fossi stata accanto avrei potuto versare nelle tue orecchie l’odio e il disprezzo che mi sentivo bruciare nel cuore. Aborrisco l’Irlanda e gli Irlandesi. Loro mi seguono per strada con i loro sguardi, forse mi leggono negli occhi l’odio che ho per loro. Attorno a me vedo solo l’immagine del prete adultero e dei suoi servi e di donne astute e ingannatrici» (27 ottobre 1909).

Alla vigilia della partenza-esilio, Joyce scrive a Nora una lettera spiegandole perché non l’avrebbe sposata. Nel farlo, imputa la propria condizione di “straniero” al rapporto con la Chiesa:

«La mia mente rifiuta l’attuale ordinamento sociale e la cristianità – la casa, le virtù riconosciute, le classi della vita, le dottrine religiose. Sei anni fa ho abbandonato la Chiesa cattolica, odiandola vivissimamente […] Ne ho rifiutato le leggi e perciò non ho più un posto. Posso essere ammesso nell’ordinamento sociale solo come vagabondo» (29 agosto 1904).

Joyce va alla ricerca di un luogo che gli permetta di sviluppare il proprio talento artistico e che sia pronto a riconoscere il suo valore. Dalla prospettiva di questo sradicamento, possiamo interrogare l’uso dell’inglese e quel particolare esilio che Joyce realizza in Finnegans Wake mescolando quaranta lingue[7]. Come scrive Giorgio Melchiori:

«Il linguaggio di Finnegans Wake è una epifanizzazione continua del linguaggio corrente […] è tutto un’unica gigantesca epifania: l’epifania del linguaggio umano, o piuttosto l’epifania dei linguaggi […] è la testimonianza suprema di un procedimento operante fin dall’inizio nella scrittura di Joyce […] qualcosa che va ben al di là della traduzione. Mi pare che Fritz Senn abbia trovato la parola giusta per definirlo: Disclocution – dislocuzione», vale a dire dislocazioni linguistiche che attingono alle riserve accumulate nel suo sterminato patrimonio linguistico e culturale: filastrocche infantili, citazioni memorabili, la volgarità dei discorsi sentiti per strada, epifanie di suono e di senso, e ancora tutto quel che risulta dalla «sua estrema attenzione ai suoni e ai ritmi del linguaggio[8]». Lacan ha parlato in proposito di lalangue[9].

Una scrittura composta ad alta voce, in cui Joyce scriveva sulla voce o forse cercava di scrivere la voce. Secondo Philippe Sollers, Joyce ha scritto in modo tale da disintegrare l’inglese. Lacan, invece, riteneva che Joyce fosse ricorso alla lingua dell’oppressore (l’inglese) perché lo spazio geografico del gaelico era stato cancellato dalle carte geografiche. E Joyce aveva l’abitudine di scrivere con una carta geografica dinanzi e, volentieri, inventava metafore geografiche. Come osserva Giorgio Melchiori: word/World.

Questa frattura dalla terra d’origine e dai suoi ordinamenti sociali e religiosi, va probabilmente imputata allo scacco della trasmissione paterna[10] a cui, secondo Lacan, Joyce avrebbe cercato di porre rimedio grazie alla sua arte, “facendosi un nome”. E in questo Nora svolgerà una funzione importante:

«So e sento che se scriverò in futuro qualcosa di bello o di nobile lo farò soltanto origliando alle porte del tuo cuore» (25 ottobre 1909).

«Accoglimi nell’intimo della tua anima e diverrò davvero il poeta della mia razza» (5 settembre 1909).

Nora sarà la segreta interlocutrice e destinataria delle sue opere, intarsiate di frasi attinte da un loro discorso privato, che solo lei avrebbe potuto intendere. Senza contare che sono state proprio le missive di Nora, prive di punteggiatura, ad ispirare il famoso monologo di Molly Bloom.

Nell’esilio si organizzerà anche la vita della famiglia Joyce. Pola e Trieste erano a quell’epoca comunità poliglotte formate da slavi, austriaci, greci, albanesi, levantini, ebrei dell’Europa centrale, ma l’idioma dominante restava l’italiano parlato dalla comunità italiana oppressa. E questa fu la lingua in cui crebbero i suoi figli. I primi dieci anni della vita di Giorgio e Lucia furono sotto il segno dell’indigenza materiale e di continui spostamenti. La loro infanzia fu a ben vedere un’erranza: tra stanze di hotel derelitti e appartamenti di fortuna, parchi pubblici e luoghi sempre provvisori, continue sospensioni di cicli scolastici e rotture dell’ambiente sociale, cambi di città e di lingua. Tale instabilità non permetteva ai bambini di costruire un proprio ambiente sociale e i soli riferimenti per loro furono i genitori e la lingua italiana – Lucia avrebbe sempre parlato con suo padre in italiano, al di là del paese in cui si trovavano. In seguito, confrontato alla fragilità psichica della ragazza, Joyce lamentò questo stile di vita temendo avesse contribuito al suo stato mentale[11]. La figlia prediletta, una promessa della danza dotata di «intuizioni sbalorditive», che gli aveva offerto «centinaia di esempi della sua chiaroveggenza» (21 ottobre 1934), era affetta – diceva Joyce – da un male tanto noto agli uomini quanto oscuro alla medicina. «La sua mente – scriveva – è chiara e spietata come il fulmine. È un essere fantastico che parla con un suo curioso linguaggio sintetico. Io lo capisco…» (1 maggio 1935).  E proprio a lei, durante uno dei suoi tanti ricoveri in cliniche psichiatriche, Joyce consiglierà di leggere la «più grande novella che la letteratura del mondo conosce» (27 aprile 1935), cioè Se di molta terra abbia bisogno un uomo, di Lev Tolstoj. Ancora questioni di terra…

Anche nella pièce teatrale è costante il riferimento al tema dell’esilio economico e spirituale dall’Irlanda, come anche al tema del figliol prodigo. Ma, come vedremo, qui l’esilio dalla terra dei padri entra in risonanza con un altro tipo di esilio: quello degli amanti da un’unione compiuta.

29 luglio-9 settembre 1909. Per la prima volta in cinque anni, Joyce fa ritorno a Dublino con Giorgio, mentre Nora resta a Trieste con Lucia. Prepara questo viaggio con cura sia per ragioni editoriali sia perché desidera che suo figlio conosca suo nonno e l’Irlanda. Ma nel ritorno fa irruzione un passato che lo sconvolge: Vincent Consgrave, un compagno di giovinezza, gli racconta di aver goduto dei favori di Nora prima della loro fuga da Dublino. Agli inizi della loro storia d’amore, la ragazza avrebbe accettato di passeggiare con Vincet durante quelle sere in cui lui la credeva in albergo a lavorare. Joyce ne è sconvolto. Il presunto tradimento di Nora fa perdere senso a ogni cosa: Joyce medita persino di abbandonare la letteratura e mette in dubbio la propria paternità:

«Georgie è mio figlio? La prima notte che ho dormito con te a Zurigo era l’11 ottobre e lui è nato il 27 luglio. Cioè dopo nove mesi e 16 giorni. Ricordo che c’è stato pochissimo sangue quella notte» (7 agosto 1909).

Smarrito e disperato, lo scrittore avvia un’indagine su ciò che non sa di Nora, punta diritto al suo passato, all’epoca che ha preceduto il loro incontro. Raggiunge in treno la madre di Nora, a Galway, pregandola di cantare per lui musiche dell’infanzia, cioè della “purezza”, di Nora (The Lass of Aughrim). Musiche che faranno ritorno nei suoi romanzi e racconti con l’appellativo di musiche lontane (mi riferisco in particolare alla novella I morti). Come scrive Catherine Millot:

«Sapere tutto di un essere, intendere il suo campo visivo in tutti i punti dello spazio e del tempo che questo essere ha occupato e occuperà – tale è l’impossibilità contro cui urta l’amore[12]».

La gelosia è quindi il grande motore, il punto di scaturigine dell’eros che pervade queste pagine:

«Ho paura che mi mostrino anche solo un ritratto di te ragazza perché penserò “Non la conoscevo e lei non conosceva me. Quando se ne andava a messa rivolgeva occhiate ad altri e non a me”. Sono assurdamente geloso del passato» (21 agosto 1909).

A documentare questa crisi coniugale saranno le Mad Letters, in buona parte censurate e poste al centro di studi psichiatrici. Queste lettere si distribuiscono in due gruppi intervallati da un breve ritorno a Trieste. Il primo gruppo di lettere, inviate da Joyce a Nora tra la fine di agosto e la metà di settembre, è dominato dal tema della gelosia. Il secondo gruppo di lettere, inviate tra ottobre e i primi di gennaio, è invece ispirato al nuovo rapporto con Nora ed è attraversato da un erotismo rabbioso che troverà la sua meta in certe pagine dell’Ulisse. Tutte queste lettere interrogano il mistero della relazione tra i sessi e lo fanno a partire dalla convergenza tra amore e desiderio: «L’amore – scrive Joyce – è una dannata seccatura soprattutto quando è accompagnato dal desiderio» (7 settembre 1909). Lo scrittore esplora perciò «la pazzia del desiderio» e il 2 settembre scrive a Nora:

«Chissà se c’è della pazzia in me. O L’amore è pazzia? Un momento ti vedo come una vergine, o una madonna e il momento dopo svergognata, insolente, seminuda ed oscena! Ricordo la prima notte a Pola quando nel tumulto dei nostri abbracci mi hai sussurrato una certa parola provocante, invitante e vedo la tua faccia sopra di me mentre la mormoravi. C’era della pazzia anche nei tuoi occhi […] ho dato agli altri il mio orgoglio e la mia gioia. Do a te la mia follia, la mia debolezza e la tristezza».

Nora gli appare insieme santa e oscena. Esige da lei l’erosione di segreti e pudori, invoca una completa visibilità:

«Accanto al mio amore spirituale c’è anche il desiderio bestiale e selvaggio di ogni centimetro del tuo corpo, di ogni suo segreto, di ogni suo odore o azione […] Ti vedo in cento pose, grottesche, verginali, languose. Concediti a me, tutta. Tutto ciò che è sacro, nascosto agli altri devi darmelo. Voglio essere signore del tuo corpo e del tuo spirito. C’è una lettera che non oso essere il primo a scrivere ma che pure spero ogni giorno che mi scriverai. Una lettera solo per i miei occhi. Forse me la scriverai e forse placherà l’angoscia del mio desiderio» (22 agosto 1909).

E poi ancora:

«Il mio corpo presto penetrerà nel tuo…oh se anche il mio spirito potesse farlo! Se potessi accovacciarmi nel tuo grembo come un figlio nato dal tuo sangue e dalla tua carne, nutrirmi del tuo sangue, dormire nella calda ombra segreta del tuo corpo… come desidero sentire il tuo corpo unito al mio…». Precisa: «Vorrei darti tutto ciò che è mio, la conoscenza che ho, tutte le emozioni che provo e ho provato, tutte le mie preferenze e antipatie, le speranze e il rimorso. Vorrei percorrere la mia vita al tuo fianco e spiegarti sempre più cose fino a diventare assieme un solo essere, finché non venga per noi il momento di morire […] il mio amore per te è in fondo un tipo di adorazione» (5 settembre 1909).

In queste righe l’amore svela la sua aspirazione a fare Uno – a realizzare l’unione dei due sessi in un solo corpo, fantasma che non di rado accompagna l’atto sessuale. Una brama che tradisce la speranza di un godimento senza resti, in cui unificazione e annientamento siano l’una il risvolto dell’altro. A queste parole fa da controcanto Lacan, secondo cui:

«In nessun caso due corpi possono fare uno, per quanto si stringano. Quel che si può fare di meglio in questi famosi abbracci è dire: “Stringimi forte!” ma non si stringe forte al punto che l’altro crepi! Quindi non c’è nessuna specie di riduzione all’Uno. È proprio una gran beffa[13]».

Dell’impossibilità di fare Uno racconta l’aforisma non c’è rapporto sessuale: giocando un po’ con le parole, potremmo dire che non c’è atto sessuale che basti perché i due arrivino a fare Uno. Qualcosa tra uomo e donna resta irriducibile all’Uno perché i loro godimenti sono dissimmetrici. È per questo che Lacan definisce il non-rapporto sessuale come un esilio dal godimento pieno e unificato dei corpi. Qualcosa, dice Lacan, continua a non accadere, continua a non scriversi al punto da diventare impensabile. Solo la contingenza di un incontro d’amore ha il potere di sospendere questo impossibile perché

«dà l’illusione che il rapporto sessuale cessi di non scriversi. Illusione che qualcosa non soltanto si articoli, ma si iscriva, si iscriva nel destino di ognuno, per cui, per un momento, un momento di sospensione, ciò che sarebbe il rapporto sessuale trovi nell’essere che parla la propria traccia e la propria via di miraggio[14]».

Nel varco aperto dall’incontro d’amore qualcosa finalmente accade: cessa di non scriversi. È questo il senso dell’incontro come “contingenza” perché tra gli esseri sessuati – scrive Lacan – al di fuori del di ciò che serve e che è utile, c’è il godere: l’incontro è il bon heur – gioco di parole tra “buon urto” e “buona sorte”. Non c’è rapporto sessuale, ma «c’è la buona ventura (bon heur). Anzi, c’è solo questo: il puro caso (chance)! [15]».

Spingendosi ancora oltre, Massimo Recalcati scrive che nell’amore il corpo può assomigliare a un nome. Ed allora tutto diventa bellezza, nel senso che «è l’amore a generare continuamente il sentimento del bello, a trasfigurare il reale informe del corpo in una figura della bellezza[16]». È come se, grazie all’incontro d’amore, potessero congiungersi quei lembi separati, potesse essere messo assieme ciò che di solito è disgiunto:

«Questa è la sola vera congiunzione possibile – quella tra il desiderio e il godimento – tra il corpo e il nome. Non quella – impossibile – del godimento dei corpi, che resta invece incondivisibile. La sola supplenza possibile all’inesistenza del rapporto sessuale, secondo Lacan, è, infatti, quella dell’amore. Se l’amore implica la parola, mentre il desiderio sessuale il corpo, quando dico “ti amo” a chi desidero dono alla parola un corpo e dono un corpo alla parola […] Il corpo che diviene nome è il corpo che interrompe la serie anonima dei corpi[17]».

Quando, per la seconda volta in pochi mesi, lo scrittore torna a Dublino scopre che la vicenda del tradimento non è rimarginata: quella ferita lavora dentro di lui, lo scava, le sue lettere sono percorse da una forte inquietudine e da un erotismo esasperato, dai toni masochistici. Scrivendo, Joyce misura, come fosse distanza da colmare, l’asimmetria insita nel rapporto tra uomo e donna. La divaricazione che il desiderio apre tra i sessi si confonde con lo spazio geografico che separa Dublino da Trieste. Una distanza che lo scrittore prova a valicare prescrivendo a Nora come impiegare il tempo, come vestirsi, cosa sia opportuno per lei fare e pensare:

«Ora voglio che siamo felici. Cerca di eseguire le cosette che ti chiedo di fare: mangiare il più possibile per diventare una donna, paga il conto dalla sarta. Ti ho spedito due cataloghi di modelli da cui scegliere. Ho in mente delle pellicce per te. Scrivimi e dimmi se fai le cose che ti chiedo. Penso a te di continuo e voglio che tu, ogni volta che pensi a me, dia un bacio al mio ritratto» (27 ottobre 1909).

«Dici che vuoi chiedere a mia sorella di portarti indumenti intimi. Non farlo. Non mi piace che nessuno, nemmeno una donna o una ragazza, veda cose che ti appartengono. Vorrei che non lasciassi in giro questi tuoi indumenti, neanche quando tornano dalla lavanderia. Vorrei che tenessi queste cose segrete, segrete, segrete, riposte in una cassapanca profumata» (22 novembre 1909).

«Come risponderai a queste lettere? Continuo a sperare che tu mi scriverai lettere persino più pazze delle mie» (13 dicembre 1909). Ancora una volta, Joyce richiama Nora alla scrittura di una lettera che dica il godimento della donna. È questo il sapere che cerca:

«[…] mentre scrivevo, avevo davanti la tua lettera e fissavo, come ora, una certa parola. C’è qualcosa di osceno e sordido nell’aspetto stesso delle lettere. Anche il suono ricorda l’atto breve, brutale, irresistibile e diabolico» (2 dicembre 1909).

Oltre l’infedeltà delle parole.

Esuli

«Esuli anche perché alla fine uno dei due,
Robert o Richard, dovrà prendere la via dell’esilio.
Forse la nuova Irlanda non può contenerli entrambi.
Robert se ne andrà. Ma i pensieri di Bertha lo seguiranno nell’esilio».
J. Joyce, Esuli[18]
«Qui non c’è nient’altro che incontro,
di tutto ciò che in ciascuno
indica la traccia del suo esilio
dal rapporto sessuale»
J. Lacan, Ancora
«Esilio: non potrebbe esserci miglior termine
per esprimere il non-rapporto,
ed è proprio intorno a questo non-rapporto
che ruota tutto quello che c’è in Exiles»
J. Lacan, Il sinthomo

Nei giorni della tristezza Joyce aveva connotato il presunto tradimento di Nora in termini religiosi, trasformando l’infedeltà sessuale della donna in un dramma di fede. Non sentirò mai più quella musica – scriveva – perché non potrò più avere fede. Con musica lo scrittore intende la voce con cui Nora accompagnava le carezze più intime, quando gli sussurrava «Caro» nelle orecchie. Quale nesso c’è tra un tradimento sessuale e un dramma di fede? Quale verità è in gioco? Impossibile sapere la verità sull’accaduto, cioè la verità del rapporto tra un uomo e una donna. Perché uno dei due tradisce l’altro? È poi così sicuro che chi subisce il tradimento vi sia estraneo? Esiste una logica interna al tradimento?

L’infedeltà della donna viene a confondersi con quella della lingua, tradisce cioè un’inadeguatezza, un limite interno al simbolico – i gelosi si scontrano con questo limite, non sono mai soddisfatti delle spiegazioni che ricevono e avviano sempre delle infaticabili indagini. Rifiutando l’infedeltà, Joyce rigetta questo limite strutturale al simbolico il che, secondo Catherine Millot, gli ha dato accesso al reale della scrittura – cioè ad una scrittura che non è presa nelle oscillazioni del senso, nei giochi del sembiante, sempre in bilico tra vero e falso, ma che punta a dire l’indicibile del godimento. D’altra parte Lacan sottolinea la funzione che la fede negli insegnamenti – vale a dire nelle parole – della Chiesa ha avuto in Joyce. Nonostante l’aperto dissenso – nota Lacan – Joyce non ha mai rigettato la fede negli insegnamenti della Chiesa:

«Indietreggia dinanzi alla cascata di conseguenze che discendono dal fatto di rigettare tutto quell’enorme apparato che resta comunque il suo sostegno[19]». Detto altrimenti, «resta radicato nel padre pur rinnegandolo[20]», come dimostra, aggiunge Lacan, l’Ulisse.

Allo stesso modo, lo scrittore sospenderà la sua personale ricerca sull’infedeltà di Nora restando nel dubbio. Le ferite di questo e altri dubbi saranno raccolte da Richard, uno dei quattro personaggi della pièce Esuli che, come Joyce, è confrontato al presunto tradimento della sua donna. Richard rifiuta di sapere la verità sulla fedeltà di Bertha o, meglio, se le parole della donna sono vere o false: Richard non interdice nulla a Bertha per non correre il rischio sempre implicato nella ricerca della verità ovvero quello di essere ingannati.

La pièce teatrale ha per titolo Esuli e Lacan considera “esilio” il termine più appropriato per dire l’impossibile nel rapporto sessuale:

«In Exiles egli avvicina qualcosa che per lui è il sintomo. Beninteso, il sintomo centrale è il sintomo costituito dalla carenza propria del rapporto sessuale, ma occorre pure che questa carenza assuma una forma. E non assume una forma qualsiasi. Nel caso di Joyce questa forma è quella che lo annoda alla moglie, Nora, durante il cui regno egli elucubrava Exiles. È stato tradotto Esuli, ma vuol dire anche Esili. Esilio – non potrebbe esserci miglior termine per esprimere il non-rapporto, ed è proprio intorno a questo non-rapporto che ruota tutto quello che c’è in Exiles[21]».

Gli amanti sono strutturalmente in esilio, perché «quando da uno risulta due, non c’è mai ritorno. Non si torna a fare di nuovo uno, nemmeno un uno nuovo[22]» scrive Lacan. Una volta infranto il mito dell’amore come unione, come unificazione, la domanda diventa: come possono gli amanti stare in esilio? Come possono attraversare i territori del loro amore in esilio? Nella visione di Lacan, «qui non c’è nient’altro che incontro»… Perché in amore si va all’incontro «di tutto ciò che in ciascuno indica la traccia del suo esilio dal rapporto sessuale[23]». Un incontro poggia sempre sul riconoscimento inconscio del particolare esilio dell’altro o, meglio, delle tracce del suo esilio da un godimento pieno. Detto altrimenti, riconosciamo l’amato in base a dei segni impercettibili che raccontano in che modo è in esilio – segni rintracciabili nei sintomi, negli affetti, in quello che chiamiamo lo “stile” di qualcuno, il suo modo di stare al mondo.

Lacan costruisce una logica in cui l’incontro è possibile solo se si assume questa dimensione “reale” di esilio dall’Uno. La sua logica diverge perciò da quella che – come scrive Catherine Millot in La logique et l’amour – domina i nostri tempi. Una logica che ostacola la vita di coppia perché è ispirata a un ideale di completamento ed è piegata a un principio di frustrazione in cui il partner è investito dall’onere di soddisfare ogni esigenza, di rispondere a ogni domanda, desiderio o godimento. Come se stare assieme significasse completare l’altro di ciò che non ha o, peggio, condividere assieme ogni aspetto della vita. Al contrario, il punto di convergenza andrebbe cercato sull’impossibile: accettare che non si può condividere tutto o godere allo stesso modo. Accettare questo squilibrio di fondo aprirebbe paradossalmente uno spazio d’incontro più ampio, preservando quell’alterità propizia al desiderio e all’eros. Denegare l’impossibile, invece, significa farlo dilagare: più una coppia prova a schivare l’impossibile, più ci finisce dentro e si trova intrappolata nelle morse di frustrazioni senza fine, di rivendicazioni amare, messa in ginocchio dalla vocazione a colmare, a completare.

Il gesto compiuto da Lacan va in tutt’altra direzione perché Lacan, scrive Catherine Millot, «aspirava ad un amore che inventasse nodi con l’impossibile[24]». Un amore che, senza denegarlo, prendesse le mosse dall’impossibile, che lo ponesse al centro di un’invenzione, danzandoci assieme. Amare a partire da ciò che è meno convergente. Solo assumendo questo esilio, solo facendo della mancanza l’avamposto dell’amore, solo stando in questa logica non-tutta, si può accedere all’incontro e dare corpo ad una storia d’amore.

Tutta l’opera teatrale di Joyce muove attorno alle varie declinazioni di questo tipo di esilio. L’azione prende le mosse dal ritorno di Richard e Bertha da Roma. Non è chiara la ragione del loro rientro in Irlanda. Sappiamo solo che in passato tutti i protagonisti sono stati legati tra loro: Richard e Robert erano molto amici e la partita con le due donne, Bertha e Beatrice, era aperta per entrambi. Ma poi Bertha aveva seguito Richard a Roma, mentre Beatrice era rimasta in Irlanda trasformandosi in una sorta di vestale di Richard. Una sacerdotessa della distanza: una vergine fredda.

Joyce descrive il gioco delle parti, precisando che «tutti questi personaggi, Bertha compresa, soffrono durante l’azione[25]». Ciascuno è attraversato da una crepa, da un elemento polimorfo, a tratti reversibile. Sono personaggi compositi, lontani da una qualsiasi forma di compimento, messi di continuo a confronto su questioni indecidibili dell’esistenza, estenuati dalle controversie, dalla discordia in cui cadono inesorabilmente. Creature abitate da una tensione che le sfibra.

Richard Rowan:

«è un uomo giovane, alto, atletico, dal portamento piuttosto indolente. Ha i capelli castano-chiaro, i baffi e porta gli occhiali[26]».

Richard è uno scrittore di origine irlandese ed è legato, fuori dai vincoli del matrimonio, ad una donna di ceto sociale più basso, Bertha (l’inziale del cui nome, fa notare Joyce, è la stessa del cognome di Nora, Bernacle). Da lei ha avuto un figlio, Archie, cresciuto a Roma dove la coppia si era trasferita in esilio volontario dall’Irlanda. Richard è un evidente alter-ego di Joyce.

Nelle Note apposte al testo teatrale, Joyce analizza le connessioni dell’amore con la gelosia. L’amore passa per un dono completo di sé, è un’apertura sull’aperto, capace di annodarsi al godimento:

«L’anima come il corpo può avere una sua verginità. L’atto d’amore consiste nel cederla, per la donna, e nel prenderla per l’uomo[27]». Rispetto a questa idea di amore, Bertha e Beatrice si posizionano in modo opposto.

La gelosia invece è quella passio irascibilis che pone «a suo oggetto un bene difficile[28]». In questo dramma – scrive Joyce – la gelosia di Richard fa un passo in avanti verso la sua stessa essenza:

«Separata dall’odio […] si rivela come immolazione del piacere del possesso sull’altare dell’amore. Richard è geloso, vuole e sceglie consapevolmente il proprio disonore e il disonore di Bertha, perché essere congiunti in ogni circostanza della vita è lo scopo dell’amore, e raggiungere quell’unione nella regione del difficile, del vuoto e dell’impossibile ne è l’inevitabile tendenza[29]».

Il nodo da sciogliere è la sete di possesso di cui Robert e Richard ci restituiscono due versioni opposte:

Robert: «Siamo accecati dalla follia quando nutriamo una passione intensa per una donna. Non vediamo più niente. Siamo incapaci di pensare. La sola cosa che ci importa è di possederla. Sarà brutale, bestiale, chiamalo come vuoi».

Richard: «Temo che questa brama di possesso non sia amore».

Robert: «Non è mai vissuto su questa terra uomo che non abbia bramato di possedere – possedere carnalmente – la donna che ama. È una legge di natura[30]». L’unione carnale per Robert è il fine inevitabile della passione, la sola ragione di vita: «L’intera vita è una conquista, una vittoria delle passioni umane sui comandamenti della viltà […] C’era un’eternità prima che noi nascessimo, e ne verrà un’altra dopo che saremo morti. Un fulgido istante di pura passione, passione libera, sfrontata, travolgente, ecco l’unica via per fuggire alla miseria che gli schiavi chiamano vita[31]».

Ma Richard è in conflitto con questa inclinazione del desiderio maschile. Teme di rimproverarsi un giorno per non aver lasciato Bertha libera di scegliere

«perché non sopportavo che desse ad un altro qualcosa che stava solo a lei, e non a me, decidere a chi dare. Perché ho accettato la sua fedeltà e ho spogliato d’amore la sua vita. È di questo che ho paura. Di trovarmi tra lei e tutti i momenti della sua vita che dovrebbero appartenerle, tra lei e te, tra lei e chiunque altro, tra lei e tutto il resto[32]».

Perciò dirà a Bertha:

Richard: «Il fatto che io sia stato il primo, che lo abbia preceduto, per te potrebbe non significare nulla. Potresti essere più sua che mia».

Bertha: «Ma non è così. Gli sono affezionata e niente più».

Richard: «E anch’io. Potresti essere più sua che mia […] chi sono io per disporre a mio piacimento del tuo cuore, o di quello di qualunque altra donna? Bertha, amalo pure, sii sua, datti a lui se è questo che desideri[33]».

Richard sta cercando su Bertha un’altra presa, un altro approdo, come se volesse possederla facendone dono:

«Quando tu hai una cosa, ti può essere presa […] ma quando sei tu a darla, l’hai data. Nessun ladro può prendertela. Una volta data, è tua per sempre. Sarà sempre tua[34]».

Aspira a raggiungere il possesso nella privazione, oltre i limiti della legge. Moustapha Safouan ha scritto che la privazione dell’oggetto del desiderio è talvolta

«il metodo obbligato per ridurre l’amore al suo unico fine: l’essere, il quale non è mai così puro come nell’assenza dell’oggetto o nella presenza che il solo nome gli dà[35]».

D’altronde anche Richard è abitato da un’intima contraddizione. Mentre cerca un sollievo dalla propria gelosia, sembra che un movente più segreto e tortuoso lo muova. Joyce insinua che Richard, poco versato a commettere adulterio con le mogli dei suoi amici, spinga Bertha tra le braccia di Robert perché vuole

«provare il brivido dell’adulterio per via vicaria e possedere una donna impegnata, Bertha, tramite l’organo del suo amico[36]».

Nascono da qui sia l’ambivalenza nei riguardi di Robert – verso cui lo vedremo oscillare tra accuse e affezione – sia la sua inquietudine per la purezza di Bertha che sente di aver violato. Più radicalmente sente di aver attentato alla verginità della sua anima:

Richard: «Con la mia colpa alimentavo la fiamma della sua innocenza».

Robert: «Tu l’hai resa quello che è. Una donna con una personalità insolita e affascinante, almeno ai miei occhi».

Richard: «O l’ho uccisa […] La verginità della sua anima […] Volevo darle una nuova vita».

Robert: «L’hai fatto. Una vita nuova e agiata».

Richard: «Ma valeva tutto ciò che le ho tolto? L’infanzia, le risate, la bellezza della gioventù, le speranze che serbava nel suo cuore di ragazza[37]».

Robert, con toni quasi sadiani, farà notare a Bertha:

«Ci ha lasciati qui da soli, a quest’ora della notte, perché vuole tornare libero […] da tutte le leggi. Bertha, da tutti i legami. Tutta la sua vita è stato un continuo anelare alla libertà. Ha spezzato tutte le catene, tranne una, ora sta a noi romperla Bertha, a te e a me. […] Nessuna legge scritta dell’uomo può frenare l’impeto della passione. Siamo forse stati creati per una sola persona? Se così fosse, sarebbe un crimine contro la nostra natura. Non c’è legge più forte dell’impulso. Le leggi sono fatte per gli schiavi[38]».

Analizziamo ora queste due sponde del femminile incarnate da Beatrice e Bertha a cui Richard è in qualche modo legato.

Beatrice, nome dantesco riservato all’altra donna, è la Madama di Richard. Beatrice è la cugina di Robert, insegna musica ed ha sofferto molto l’esilio volontario di Richard dall’Irlanda:

«Ho sempre saputo che un giorno se ne sarebbe andato. Non ho sofferto; ma, sono cambiata […] ogni cosa cambiò. La sua vita, persino la sua mente, sembrarono cambiare, dopo. […] Se non sono morta allora, mi dicono che probabilmente vivrò. Vita e salute mi saranno ridate […] Sono convalescente[39]».

In questi lunghi dieci anni si sono scritti lettere. Ma tra lei e Richard, tra un loro possibile rapporto, c’è sempre stato Robert:

Richard: «Lo ama ancora?».

Beatrice: «Non lo so neppure».

Richard: «Era questo a rendermi così riservato con lei allora, anche se sentivo il suo interesse per me, anche se sentivo che anch’io ero qualcosa nella sua vita».

Beatrice: «Lo era».

Richard: «Eppure, questo mi separava da lei. Ero una terza persona, lo sentivo. I vostri nomi venivano sempre pronunciati insieme, Robert e Beatrice[40]».

Beatrice è una donna che resta al di qua della vita, la sfiora senza riuscire ad afferrarla. I suoi rapporti con Richard sono confinati in distanze siderali, in astrazioni ideali. Joyce scrive:

«La mente di Beatrice è un freddo tempio abbandonato in cui in un lontano passato si levavano inni al cielo, ma dove ora è rimasto solo un prete avvizzito che innalza all’Altissimo preghiere senza speranza[41]».

E Richard mette a nudo questa sua incapacità di darsi all’altro:

Richard: «Lei era attratta da lui, mentre la sua mente era attratta dalla mia. Si è ritratta da lui. E anche da me, in modo diverso. Le è impossibile darsi liberamente e interamente».

Beatrice: «È una cosa terribilmente difficile, signor Rowan… darsi liberamente e interamente… ed essere felici[42]».

Al contrario di Beatrice, Bertha è nell’abbandono:

«Ti ho dato tutta me stessa. Per te ho rinunciato a tutto. Tu mi hai presa e poi mi hai abbandonata[43]».

La vicenda teatrale, infatti, la vede consegnata da Richard a Robert, perciò Bertha

«deve apparire come trascinata al limite estremo della propria incolumità dalla corrente dell’azione drammatica, e mostrare comunque una punta di risentimento nei confronti dell’uomo che non tende una mano per salvarla[44]».

Bertha lo ammonisce: è stato lui non solo a permetterle di andare avanti, ma quasi a volerlo. Perché Richard fa questo?

«Il possesso del corpo di Bertha da parte di Robert, reiterato nel tempo, condurrebbe certamente i due uomini a un contatto quasi carnale tra loro. È questo che desiderano?[45]».

Richard dice a Robert:

«Nel profondo del mio cuore ignobile desideravo che tu e lei mi tradiste, al buio, di notte, furtivamente, di nascosto, con l’inganno. Tu, il mio migliore amico, e lei. Ho coltivato questo desiderio appassionato e ignobile, ho sperato di essere infamato per sempre […] di essere condannato in eterno e di ricostruire la mia anima sulle rovine della mia infamia[46]». Il masochismo di Richard, commenta Joyce, è evidente.

L’abbandono spirituale in cui versa, fa apparire Bertha immersa in uno stato quasi ipnotico, scolpita nella sua bellezza e nella sua solitudine.

L’anima di Bertha è quella «di una donna che, rimasta nuda e sola, potrebbe giungere alla comprensione della propria natura[47]». La sua mente «è una grigia foschia marina dalla quale emergono oggetti comuni – colline, alberi delle navi e isole deserte – dai contorni strani eppure riconoscibili[48]».

Bertha, scrive Joyce, «ha il vantaggio della bellezza[49]»: occhi grigio scuro dall’espressione paziente e lineamenti delicati. Il corpo è pieno di grazia. Robert la paragona a «qualcosa di bello e distante: la luna e una musica profonda […] un fiore selvaggio sbocciato in una siepe[50]». La sua età, 28 anni, «corrisponde al compimento di un ciclo lunare[51]». Robert la bacia perché è bella, perché «un bacio è un atto di omaggio» alla bellezza, perché la donna è «un’opera della natura, anche lei, come una pietra o un fiore o un uccello[52]». L’ironia del dramma, commenta Joyce, vuole che la bellezza «presente nella sua essenza visibile e invisibile sotto il tetto di Richard, non trovi in quest’ultimo, bensì in Robert, il proprio apostolo[53]». Tutti la credono amante di Robert, ma

«Bertha è riluttante a dare ospitalità nel suo grembo al seme di Robert […] per lei la concessione suprema è quella che i padri della chiesa definiscono emissio seminis inter vas naturale […] Saprebbe abbandonarsi alla propria voluttà a tal punto da ricevere il suo fluido seminale in altri interstizi del corpo dove, una volta emesso, non potrebbero agirvi le forze della sua carne segreta?[54]».

Qual è la verità del loro rapporto? La verità di queste linee di forza tese come spade tra i personaggi? Linee separatrici tracciate perché affiori meglio il fondo solitario di ciascuno di loro. La verità sembra volgere in altro, si confonde con desideri difficili da decifrare, si nasconde o urta in confessioni improvvise, scandalose. La verità, diceva Lacan, può solo mi-dirsi, dirsi a metà, perché una sua faccia mette in scacco le parole e il senso, piuttosto: raggiunge il fuori-senso, il reale[55].

C’è un desiderio che guida l’azione? Robert dirà a Richard: «Se sono giunto a questo punto è perché tu mi ci hai portato. Lei ed io non abbiamo fatto che assecondare la tua volontà[56]». A Bertha che gli raccomanda di dire a Richard tutta la verità, Robert risponde:

Robert: «Cosa è successo ieri notte? Quale verità devo raccontargli? Sei stata mia in quella sacra notte d’amore? O l’ho solo sognato?».

Bertha: «Serba il ricordo del sogno. Hai sognato che ieri notte sono stata tua».

Robert: «È questa la verità? Si è trattato di un sogno? È questo che devo dirgli?».

Bertha: «Sì».

Robert: «Di tutta la mia vita, solo quel sogno è vero. Tutto il resto l’ho dimenticato. Ora posso dirgli la verità».

Il nome Robert è ispirato a Roberto Prezioso, direttore del Piccolo di Trieste, tra i primi studenti di Joyce alla Berlitz, che aveva corteggiato Nora ed era stato perciò oggetto di una violenta reprimenda da parte di Joyce in piazza Dante. Nella pièce, Robert è infatti un giornalista e corteggia Bertha:

«Robert Hand è un uomo di media corporatura, piuttosto robusto, fra i trenta e i quarant’anni. È ben rasato, con lineamenti espressivi. Ha occhi e capelli scuri e la carnagione giallastra. L’andatura e la parlata sono piuttosto lente[57]». La sua ambiguità si manifesta nel fatto che «il sadismo di Robert, il suo desiderio di infliggere dolore come parte integrante del piacere sensuale – si manifesta solo, o principalmente, nei suoi rapporti con donne con le quali è costantemente seducente perché costantemente aggressivo. Con gli uomini, invece, è mansueto e umile di cuore[58]».

Durante il secondo atto dichiara a Richard:

«Ho combattuto per te tutto il tempo che sei stato via. Ho combattuto per riportarti indietro. Ho combattuto per tenerti il posto qui. Combatterò per te ancora, perché ho fede in te, la fede di un discepolo nel suo maestro». E Richard gli risponde: «C’è una fede ancora più strana della fede del discepolo nel suo maestro […] La fede di un maestro nel discepolo che lo tradirà[59]».

Bastano queste battute a restituirci la fragranza del rapporto passionale tra i due uomini. A Richard che gli dà del ladro, Robert risponde che è lui a sentirsi derubato, perché in fondo, tutto quello che fa, lo ha imparato da Richard negli anni della loro giovinezza. Come Bertha, anche lui si sente “agito” da Richard che, pur sapendo, ha lasciato che si spingesse così oltre con Bertha solo per trascinarlo al centro dell’arena:

«Era me che sorvegliavi. E non hai mai detto niente! Sarebbe bastata una tua parola a salvarmi da me stesso. Mi volevi mettere alla prova. Una prova terribile: anche adesso. Ma è tutto finito. È una lezione che non scorderò per il resto della vita[60]». Quindi: «Vorrei che tu mi condannassi, mi maledicessi, che mi odiassi come merito. […] Lei ti appartiene, è opera tua ed è per questa ragione che anch’io ho subito il suo fascino. Sei così forte che l’attrazione che eserciti su di me passa anche attraverso di lei[61]».

Le battute finali del dramma si stringono su Richard e Bertha:

Richard: «Mi son ferito l’anima per te, il dubbio ha scavato una ferita profonda che non potrà mai rimarginarsi. Non mi è dato sapere, né mai saprò niente. Non voglio sapere né credere a nulla. Non m’interessa. Non è nella cecità della fede che ti desidero, ma nel dubbio che lacera, vive e non trova mai pace. Un possesso che non conosca catene, fossero pure d’amore, un’unione di corpi e anime nude, a questo anelavo. Ed ora sono stanco, Bertha. La ferita mi strema[62]».

Bertha: «Dimenticami Dick. Dimenticami e poi amami ancora come la prima volta. Voglio il mio amante. Voglio ritrovarlo, andare da lui, dargli tutta me stessa. Dick, mio strano, mio impetuoso amante, ritorna da me[63]».

Joyce lascia a Bertha l’ultima parola. Perché? È forse la sola via d’uscita al loro dramma? Il suo gesto di rinnovato abbandono all’amore è un gesto che rilancia l’incontro, che fa appello al bon heur[64], perché chiede a Richard di trovarla di nuovo, ancora – dopo averla persa –, lungo le lande del loro esilio.


[1] James Joyce, Lettere, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1974. Tutte le citazione delle lettere presenti in questo testo introduttivo sono tratte da questa edizione. Il testo che segue costituisce la Prefazione alla riedizione della pièce Esuli (Castelvecchi, Roma 2022).
[2] Il tema del tradimento percorre l’opera di Joyce. A soli nove anni aveva composto un poemetto satirico sul «tradimento» di politicanti e moralisti nei riguardi di Parnell, il difensore dell’autonomia dell’Irlanda. Nel 1906 aveva scritto un racconto ispirato al caso di un ebreo dublinese, di nome Hunter, noto per essere stato tradito. Il 1909 segna un apice a causa della vicenda del presunto tradimento di Nora che lo scosse profondamente e di cui si parlerà molto in questo articolo. E infine, data al 1913 lo scontro in pubblica piazza, a Trieste, con Roberto Prezioso, suo studente alla Berlitz, che, dopo essere entrato nella cerchia più stretta di Joyce, aveva corteggiato a tradimento Nora – il suo nome, Roberto, tornerà come Robert nella pièce teatrale Esuli, composta quasi a ridosso di questo episodio. Il tema del tradimento femminile resterà un assillo nella sua opera. Nell’Ulisse scrive: «Da oltraggio (matrimonio) a oltraggio (adulterio) non nasceva altro che oltraggio (copulazione) […]» (J. Joyce, Ulisse, traduzione di Giulio De Angelis. Milano, Mondadori, 1987.p. 773). «Chi mai sapeva la verità? […] Confesserebbe a metà se non avesse peccato del tutto, come è costume delle femmine. Solo Dio sapeva e lei» (p. 243). Consiglia: «Non far domande e non sentirai bugie» (p. 287). La donna, «signorilmente, mente» (p. 288).
[3] Epifania proviene dal tardo latino epiphanīa, gr. ἐπιϕάνεια. In origine aggettivo neutro plurale: «(feste) dell’apparizione», quindi, «manifestazione (della divinità)», da ἐπιϕανής «visibile», derivato di ἐπιϕαίνομαι «apparire». Si tratta di scintille, luci, bagliori colti nel reale che Joyce volle fissare in brevi componimenti. Sembravano fatti banali, «atti assai delicati ed evanescenti» invece erano manifestazioni del divino. Sulla sua capacità di fissare, trascrivere questi momenti impercettibili, attimi d’intuizione piena e completa della realtà, Joyce ha fondato la certezza della propria vocazione di scrittore. L’epifania – precisava Joyce – corrisponde alla Claritas, il terzo stadio dopo “integrità” e “simmetria”, della teoria estetica di San Tommaso. La Claritas di San Tommaso corrisponde alla quidditas scolastica: è il momento in cui un oggetto svela la propria essenza. Si vedano in particolare J. Joyce, Epifanie. Illustrate da Vittorio Giacopini. Testi di Carlo Avolio, Vittorio Giacopini e Enrico Terrinoni, Racconti Edizioni, Roma 2021.
[4] J. Lacan, Il seminario. Libro xxiii, Il sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma 2006, p. 80.
[5] Ivi, pp. 80-81. Qualche riga prima, Lacan aveva scritto: «C’è una dinamica dei nodi. Non serve a niente, ma serra. Insomma può serrare, se non servire» (p. 78). Il gioco omofonico, apprezzabile in lingua francese, è dunque «Ça sert à rien, mais çà serre».
[6] Sul concetto di “non rapporto sessuale” rinvio alle pagine 6-7, mentre sul concetto di “esilio”, ad esso collegato, rinvio alle pagine 9-10.
[7] «Il lettore come scrittore: è questa l’intuizione fondamentale di Joyce» (G. Melchiori, Joyce: il mestiere dello scrittore, Einaudi, Torino 1994, p. 9). È per questo che Joyce, benché sapesse che esistono tante lingue quanti sono i parlanti, ha cercato di scrivere nella lingua del destinatario. Basti pensare a quando, molto giovane, ha imparato il norvegese prima di rispondere ad Henrik Ibsen che gli aveva inviato una lettera di ringraziamento.
[8] G. Melchiori, Joyce: il mestiere dello scrittore, cit., pp. 6-7.
[9] Lacan ha introdotto il concetto di lalangue, in italiano lalingua, tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, quando ha posto l’accento sull’inconsistenza dell’Altro e sull’incapacità del significante a produrre senso. Così la logica del significante – che fino a quel momento era stata l’architrave del lacanesimo – ha fatto posto a lalangue, scritto tutto attaccato, proprio per indicare una sostanza fonica non ancora segmentata, non ancora tagliata dalla perdita e perciò intrisa di godimento. In lalangue l’accento cade sul piacere che suscita e non sul senso che ha, infatti non è una struttura di linguaggio e non è fatta per comunicare: piuttosto è materia pulsionale, alluvionale, è un deposito di godimento: serve a godere.
[10] La funzione del patronimico è innanzitutto quella d’iscrivere il soggetto nell’Altro, situandolo nel solco di una discendenza, di una tradizione.
[11] Il caso Lucia Joyce è avvolto da uno strano mistero dovuto alla cancellazione sistematica della sua parola ad opera di coloro che le erano più vicini: suo fratello Giorgio, sua madre Nora e soprattutto suo nipote, Stephen. Sappiamo però che la malattia psichica di Lucia fu per Joyce un tormento, a lungo negato. Ebbe infatti un rapporto molto controverso con i medici ai quali l’affidava e sottraeva di continuo. Nel tentativo di salvarla, Joyce si rivolgerà persino a Carl Gustav Jung che accettò di prendere in cura Lucia senza riuscire a formulare mai una precisa diagnosi (a un certo punto, analizzando alcuni testi poetici della ragazza, parlerà di “elementi schizoidi”). Dopo appena quattro mesi di terapia, Jung desistette. Quando Joyce andò a riprenderla nella clinica in Svizzera, gli disse: «Lucia e io navighiamo nelle stesse acque» e Jung gli rispose: «Sì solo che lei sta affogando». Il fallimento della terapia indurrà Jung a distruggere le cartelle cliniche. Anche stavolta la parola di Lucia verrà distrutta… Tuttavia, vent’anni dopo, dichiarò che Lucia era rimasta imprigionata nella psiche del padre senza poterne emergere in modo autonomo.
[12] C. Millot, La vocation de l’écrivain. Gallimard, Paris 1991, p. 28.
[13] A.A.V.V., La Terza, in La psicoanalisi, n° 12, Roma, Astrolabio, 1992, p. 37.
[14] J. Lacan, Il seminario. Libro xx, Ancora (1972-1973), Einaudi, Torino 2011, p. 139.
[15] J. Lacan, Altri scritti, Introduzione all’edizione tedesca di un primo volume degli Scritti, Einaudi, Torino 2013, p. 548.
[16] M. Recalcati, Esiste il rapporto sessuale? Desiderio, amore e godimento. Raffaello Cortina Editore, Milano 2021, p. 159.
[17] Ivi, pp. 157-158.
[18] J. Joyce, Esuli, traduzione di Roberta Arrigoni e Cristina Guarnieri, Editori Internazionali Riuniti, Roma 2012, p. 300.
[19] J. Lacan, Il Seminario. Libro xxiii (1975-76), Il sinthomo, cit., p. 76.
[20] Ivi, p. 66. Perciò Joyce si dichiara «non generato, ma creato dal nulla». Scriverà: «La paternità in quanto generazione cosciente è sconosciuta all’uomo. È uno stato mistico, una successione apostolica, dall’unico generatore all’unico generato. Su quel mistero e non sulla Madonna, che lo scaltro intelletto italiano ha gettato in pasto alle genti d’Europa, è fondata la Chiesa e fondata irremovibilmente, in quanto fondata, come il mondo sul vuoto. Sull’incertezza, sull’improbabilità» (Ulisse, cit., pp. 225-26). Come si dice Pater semper incertus est.
[21] J. Lacan, Il seminario. Libro xxiii, Il sinthomo (1975-1976), cit., p. 67.
[22] J. Lacan, Il seminario. Libro xx, Ancora (1972-1973), Einaudi, Torino 2011, p. 80.
[23] Ivi, p. 139.
[24] C. Millot, La logique et l’amour. Et autres textes, Éditions Nouvelles Cécile Défaut, Nantes 2015, p. 95.
[25] J. Joyce, Esuli, cit., p. 288.
[26] Ivi, p. 15.
[27] Ivi, p. 287.
[28] Ivi, p. 288.
[29] Ivi, p. 288.
[30] Ivi, p. 143.
[31] Ivi, p. 165.
[32] Ivi, p. 159.
[33] Ivi, pp. 177-179.
[34] Ivi, pp. 96-97.
[35] A.A.V.V., Amore e alterità, in “Atti di Mazara del Vallo. Psicanalisi e Cultura oggi”. Bollettino di psicanalisi, Roma, Cosa Freudiana, n° 18-19-20, p. 132.
[36] J. Joyce, Esuli, cit., p. 301.
[37] Ivi, pp. 153-155.
[38] Ivi, pp. 209-211.
[39] Ivi, pp. 27-29.
[40] Ivi, p. 25.
[41] Ivi, p. 294.
[42] Ivi, p. 29.
[43] Ivi, p. 279.
[44] Ivi, p. 289.
[45] Ivi, p. 299.
[46] Ivi, pp. 161-163.
[47] Ivi, p. 289.
[48] Ivi, p. 301.
[49] Ivi, p. 299.
[50] Ivi, p. 55.
[51] Ivi, p. 287.
[52] Ivi, p. 81.
[53] Ivi, p. 290.
[54] Ivi, pp. 300-301.
[55] Il reale di Lacan non va confuso con la realtà, potremmo anzi definirlo come ciò che residua dalla realtà. Lacan lo accosta attraverso la categoria dell’impossibile: il reale è ciò che è impossibile a dirsi (l’indicibile), a pensarsi (l’impensabile) persino a immaginarsi (l’irrappresentabile). Benché sia dell’ordine dell’impossibile non è periferico né escluso, piuttosto fa la regia delle nostre strutture psichiche, della nostra percezione della realtà, persino della nostra percezione dell’immagine del corpo.
[56] Ivi, p. 165.
[57] Ivi, p. 39.
[58] Ivi, p. 301.
[59] Ivi, p. 89.
[60] Ivi, p. 135.
[61] Ivi, p. 141.
[62] Ivi, p. 283.
[63] Ivi, p. 283.
[64] Si rinvia a quanto scritto sul bon heur a p. 7.